Sparami

Io porto una Beretta 7.65 parabellum. Un’arma da femmina?
La leggenda metropolitana narra di un tipo che vuole ammazzare la moglie, ha una 7.65, è notte, lei dorme, lui si avvicina con mano tremante arma l’otturatore e mette il colpo in canna, la donna è nuda nel letto arrotolata tra le lenzuola, con la sinistra scopre il capo, vede nella penombra i suoi riccioli biondi che si espandono sul cuscino. La mano continua a tremare, ma è deciso, deve punirla, tutto è finito, la deve pagare per il male che gli ha fatto. Spara. Un colpo, un solo colpo in fronte, sussulta il corpo, il tonfo assordante fa tremare i vetri della finestra, poi è il silenzio, i capelli e il cuscino si tingono di scuro, è buio e il sangue sembra inchiostro. Il bossolo espulso dalla piccola automatica rimbalza sul letto, l’odore di polvere da sparo invade il suo olfatto.
La disperazione lo avvolge, la decisione lo consola. Infila la canna in bocca, infondo, più infondo, quasi in gola e … spara e muore. La donna viene ricoverata con solo dieci giorni di prognosi e dimessa in venti per trauma cranico, quel povero fesso non aveva ucciso la moglie, le aveva solo scheggiano i lobi frontali, il proiettile era finito nel comodino al suo fianco. Colpa della pistola dal calibro troppo piccolo? Bufale secondo me se è vera questa storia, al tipo tremava la mano e l’ha semplicemente presa di striscio.
Altri sostengono che la 7.65 non abbia potere d’arresto, come dire che se spari a uno che corre, quello manco se ne accorge e continua a correre. Io non sono d’accordo, non sarà certo una 3.57, che ti solleva quando ti colpisce, ma resta pur sempre un’arma, il mio consiglio, sarà banale ma è di non farsi mai sparare addosso, neanche se è solo una 7.65.
A me, non me non me ne importa niente di queste cose, semplicemente la 7.65 è leggera e pure i colpi lo sono , chi se la deve tenere in tasca tutto il tempo sono io. Chi porta l’arma tutto il giorno sa bene quanto pesa, chiedilo a un poliziotto o a un carabiniere, calibro 9 bifilare, da sola pesa un kilo e porta sedici colpi, fa venire la scoliosi e io oggi ho cinquant’anni e se me lo posso risparmiare ne sono felice. Che mi frega del potere d’arresto, che la gente la consideri un’arma da femmina, costa poco e soprattutto io mica la devo usare per forza.
L’arma induce rispetto per sua natura. La gente sa che la porto, sa che sono in vantaggio, sa per certo che non è un giocattolo, sa che non è caricata a salve e sa che posso e so usarla, ma soprattutto sospetta che la userei e io so, che non si sbaglia.
Molti anni prima, avevo conosciuto un cassiere di banca,Gepi, così lo chiamavano tutti, non so se fosse il suo vero nome o cognome oppure uno di quei nomignoli che si dicono una volta e restano attaccati tutta la vita. Era un uomo alto e canuto, con un leggero labbro leporino, l’aria saggia di uno che riflette prima di rispondere a una domanda, gentile ma autorevole, le sue parole sospese nel tempo parevano scritte per sempre, lo stimavo molto e questo sentimento doveva essere ricambiato perché a pochi giorni dal suo pensionamento mi fece dono di una confidenza che cambiò per sempre la mia vita.
“Mani in alto questa è una rapina” urlò l’uomo incappucciato da una calza mentre saltava sul bancone e scavalcava il vetro che limitava la clientela, un’ altro entrava nella stanza del direttore, un’ altro ancora scavalcava il bancone alla sua destra mentre per esser preso sul serio sparava un colpo di lupara sul soffitto.
Il Gepi lo riconobbe subito, , calibro 12 pensò, piombo 9. Il calbro dal suono, il piombo dai segni del colpo sul soffitto. Il Gepi era un appassionato di caccia da piuma.
Quando a una vecchia doppietta da caccia seghi parte della canna e parte del calcio, il nobile fucile da caccia a canne giustapposte si trasforma in un maneggevole incubo da rapina, estremamente impreciso forse, ma temibile perché spara pallini piccoli in ogni direzione facendo scempio d’ogni ostacolo, in quel caso, mi raccontava Gepi, il colpo decimò le lampade al neon sul soffitto. Riconobbe il piombo 9 da pernice perché le tracce sul soffitto erano minuscole ed era la sua grammatura preferita per la caccia d’aspetto, quando da capanni nascosti nei canneti attendeva stormi delle prelibatissime prede stremate dalla lunga migrazione entravano nel suo mirino, lui questo lo chiamavano caccia, io pernicicidio, odio la caccia e i cacciatori.
Le sue mani riempirono sacchi neri della spazzatura di banconote d’ogni taglio, riempiva e consegnava, i rapinatori a loro volta riempirono le loro borse da tennis ed andarono via.
Il Gepi prese un foglio di carta ci scrisse sopra – chiuso per rapina- e camminando tra cocci e calcinacci si diresse verso l’uscita, quando fu davanti alla centralina di controllo delle porte, girò le chiavi e chiuse tutto, poi attaccò il foglio sulla porta.
Si susseguirono le telefonate dalla direzione “state tutti bene?””quanto hanno preso?”.
Poi fu il turno delle telefonate a mogli e figli, prima che radio e telegiornale parlassero della rapina, “il bancario è un lavoro pericoloso di questi tempi”.
Poi fu il turno della polizia, le foto, le impronte sui vetri e sul bancone, atti formali, “i rapinatori avevano i guanti?”
A nulla servì il racconto suo e dei suoi colleghi, l’inutile rituale ebbe luogo e durò tutto il pomeriggio, Gepi sosteneva che non furono mai beccati.
Poi d’ultimo l’arrivo dei funzionari dalla sede centrale con un medico, per fortuna che c’era, perché i dirigenti erano così imbarazzati, goffi, finti che fu un sollievo farsi misurare la pressione da uno che ti guardava negli occhi da persona a persona. Qualcuno girava chiedendo:”chi vuole essere accompagnato al pronto soccorso?”.
“Scusi direttore”fece Gepi consegnando il registro di cassa “Questi qua, gli ultimi”indicando i poliziotti in borghese ”si, questi della scientifica dicono che hanno finito…” l’altro”ha visto Gepi, quasi un miliardo…” “9.867.613, è meno d’un miliardo, io la vedo così, se nessuno sé fatto male allora va bene così”annuendo”si hanno finito, puoi chiudere il caveau, grazie, grazie di tutto, siamo stati bravi e coraggiosi, ma lei Gepi, ha sostenuto tutti noi con la sua calma, il vero sangue freddo, grazie Gepi, sei stato un esempio, grazie davvero, ne parlerò in direzione, contaci”.
Gepi fece scivolare sui loro perni i sei grandi portoni delle cassette di sicurezza, le serrature scrocchiavano, chiavi lunghe oltre un palmo divisibili in segmenti assemblabili venivano smontate una ad una e riposte in tre custodie di pelle con dentro anche il foglietto plastificato delle combinazioni, una era per il direttore, una per il vice, e una era la sua.
Tornò al suo posto di lavoro per mettersi la giacca, nessuno si curava di lui, Gepi, infilò le mani nel cestino della spazzatura e raccolse indisturbato sedici mazzette da centomila lire, le infilò lentamente nelle tasche della giacca e dei pantaloni,salutò di nuovo i pochi colleghi rimasti, consegnò due dei tre involucri con chiavi e combinazioni al direttore, con un cenno distratto verso i poliziotti si congedò e uscì, salì sulla sua ritmo gialla uovo e tornò a casa.
Da quel giorno, da quel racconto, la mia vita non fu più la stessa, il tarlo era in me. Per ore giorni e anni pensai a quel sangue freddo, Gepi durante la rapina aveva fatto sparire centosessanta milioni di lire senza battere ciglio, chi mai sene sarebbe accorto, anzi lui era un eroe, uno che aveva subito una rapina e per questo sarebbe stato addirittura preso ad esempio dalle future generazioni di cassieri.
Per quanto riguarda il mio contesto familiare lo definirei irrilevante, non esistono motivazioni strappalacrime, nessun figlio malato di Sla o mogli con l’Alzheimer, né debiti per gioco d’azzardo e così via. Se una motivazione è la mediocrità, bene allora è questa la motivazione.
Il tarlo se vogliamo chiamarlo così nasce dall’occasione. Nasce dall’idea di avere un grande potere: la coscienza di avere la capacità di trasformare una situazione sfavorevole in una di estremo vantaggio.
Qualcuno aggiungerebbe anche che gente come me, a cinquant’anni, con un’immutabile futuro davanti ha ben poco da perdere, ma io non sono d’accordo.
Un fattore rilevante per l’espansione del tarlo fu la qualità del tempo che avevo a disposizione per maturarlo. Ore e ore, giorni mesi, anni, di osservazione e attesa che la condizione necessaria si manifestasse, scivolarono come l’acqua sull’argilla, in solitudine e nel quasi totale silenzio. Si, certamente i miei complici furono tempo, silenzio e solitudine, ma soprattutto il silenzio.
Quando il tarlo allentava la sua presa sui miei pensieri o meglio sulla mia capacità d’osservazione, immaginavo storie di carcerati che sviluppavano la loro strategia di fuga con pazienza e determinazione. Così il cambio turno, una disattenzione delle guardie diventava la loro occasione di fuga, in fondo la mia situazione non era così diversa dalla loro.
Del resto anche sull’azione del Gepi, non mancavano alcuni interrogativi irrisolti: era una sua abitudine gettare alcune mazzette nel cestino? Si era accorto del sopralluogo? Era un basista? Ero giunto alla conclusione che io potevo sviluppare un mia strategia totalmente autonoma, e grazie al tempo e al silenzio nel mio caso tutto partiva dalla vigilanza, fa ridere dirlo, del resto questo sono, uno che vigila.
Nessuno poteva leggere il tarlo nei miei pensieri, anzi, l’immagine affidabile era un baluardo che tenevo altissimo, è per questo che le mie vere intenzioni erano per così dire, mimetizzate.
Se un rapinatore viene arrestato si becca diversi reati, rapina a mano armata, associazione a delinquere ecc. non gli serve affatto l’omicidio. Mi spiego meglio, che una rapina vada bene o male se fatta con criterio è un po’ come la guerra fredda, tante testate nucleari ho io tante ne hai tu, esiste l’intimidazione, ma la responsabilità di una guerra nucleare vera nessuno è disposto ad assumersela. Per questo un criminale con un minimo di professionalità non ammazza e basta.
Questo è un fattore cruciale, la mia assicurazione sulla vita, a questo punto mi serve una rapina.
Ma una rapina in banca è fatta di sopralluoghi e di osservazioni, le banche non si svaligiano senza capire per esempio a che ora e in che giorno ci sia il massimo del contante e soprattutto si evita sempre il conflitto a fuoco con coloro che portano o ritirano il contante, uno scontro esterno è sempre da evitare, meglio farla dentro la banca, salvo che non si voglia avere a che fare col furgone blindato, in quel caso serve tanta gente e un luogo isolato.
No quello che mi aspetto è una rapina qui, qua dentro e prima ancora il sopralluogo.
Da quando Gepi mi fece quel racconto passarono quindici anni, passarono lentissimi, erano fatti di minuti e ore tutte uguali. Per tutto quel tempo non pensai ad altro, al Gepi e a quei centosessantamilioni di lire rubati ai ladri. Attesi per quel tempo infinito che l’agenzia di banca presso la quale lavoravo come guardia giurata diventasse una banca da svaligiare, attesi il sopralluogo, osservando e annotando tutto quello che vedevo da dietro il vetro blindato.
Attesi per anni un segnale significante e un giorno arrivò. Notai dapprima le loro auto, chissà perché i rapinatori prediligono le stesse auto che usa la polizia, Alfa Romeo.
Un uomo anziano con occhiali spessi da vista e cappello preceduto da un giovane , fecero la file per cambiare dollari in lire, il vecchio dietro, il giovane davanti, entrarono e uscirono in formazione come le anatre in volo; erano le tredici di martedì.
Lo annotai, così come segnai la targa di quell’auto in seconda file AB 16…. Un’altro uomo al suo interno e una quarta persona col cane al guinzaglio che passava proprio in quel momento,
Annotai tutto sul mio taccuino, ci siamo pensai, da dentro alla mia scatola di vetro.
L’uomo col cane al guinzaglio passava e ripassava tutti i giorni tra le 13,45 e le 14,10, lo seguivo dalla telecamera posta all’esterno,alle 14,10 in punto spariva dietro l’angolo,
La settimana successiva li aspettavo, ma era un altro sopralluogo, cambiarono questa volta altri dollari, poco prima dell’ora di pranzo.
La mia strategia è semplice, non sporca la mia coscienza, richiede solo sangue freddo e organizzazione.
Se mi feriscono durante la rapina avrò a seconda del danno non meno di trecentomila euro, per danni permanenti anche cinquecentomila euro. Si vedeva che erano professionisti, questo era un punto a favore e a sfavore. Cercheranno di non sparare e quindi dovrò essere io a indurli a farlo, il vantaggio è che quando lo faranno, perché io li costringerò a farlo, spareranno per ferire non per uccidere. Di questo sono certo.
I miei cinquant’anni sono già un danno permanente, anche questa totale impossibilità di cambiare il mio futuro, questa è l’unica possibilità per godermi qualche agio.
Sono professionisti e cercheranno di non sparare, quindi mi serve un severo atto intimidatorio, alla caviglia avrei messo uno snubnose, le traduzione suona “naso schiacciato”, un revolver con la canna corta.
Ad Alfredone la chiesi così, “ naso schiacciato per rompere le noci”, sorrise facendo un cenno di consenso, lo seguii. Abbandonammo la parte di bancone delle armi nuove e luccicanti, scivolammo verso la zona dell’usato sicuro. Alcune non erano male, ma quando gli dissi che potevo spendere massimo trecento euro per arma munizioni e fondina da caviglia mi spiegò che non c’era molto da scegliere, spianò con cura una pezza di velluto nero sul bancone di vetro, prese qualcosa che non era esposta ne aveva una custodia, Colt cobra 38 special, l’arma di kojak, pensai.
Alferdone esitò un attimo, l’arma presentava evidenti punti ossidati sull’acciaio bruno, una guancia del calcio era scheggiata, insomma, non si presentava tanto bene, “arma da vendetta” disse, “arma da primo aprile”.
Erano le 9,40 del primo aprile 1971, Monika Ertl, militante col nome di battaglia “Imilla” dell’Esercito di Liberazione Nazionale boliviano, viene ricevuta presso l’ambasciata tedesca di Amburgo dal console boliviano Roberto Quintanilla Pereira, era il suo ultimo giorno da console, nel cassetto aveva un biglietto aereo di sola andata per la Bolivia, finalmente tornava a casa. Monica estrae una colt cobra 38 special e spara tre colpi a bruciapelo, tutti andati a segno, l’uomo cade sul divano e rimbalza a terra morto. Accorre Anna la moglie del console con la quale Monika ha una breve colluttazione, ma riesce a fuggire, abbandonando una parrucca, la borsa, un foglio con la scritta”Victoria o muerte. Eln” e quella pistola che Giangiacomo Feltrinelli aveva comprato in un armeria di Milano tre anni prima.
Un arma da vendetta, Roberto Quintailla Pereira ex colonnello dei reparti speciali boliviani era noto come il boia del Che Guavara. E’ lui nella foto a fianco del Che morto, è lui che diede l’ordine di far fuoco su quell’ultimo drappello di patrioti, è lui che gli amputò le mani dopo averlo fatto fucilare il 9 ottobre del ’67.
Mise sul bancone una scatola di munizioni e una fondina da caviglia usata”trecento euro”.
Consegnai il porto d’armi, mentre Alfredone compilava i moduli gli chiesi che fine avesse fatto Monika, lui senza alzare lo sguardo scosse la testa ”gli eroi non muoiono mai”.
A fine rapina estrarrò la seconda pistola proprio con l’intento di indurli a sparare nonostante mi avessero reso inoffensivo disarmandomi della mia visibile 7.65. Entrambe le armi in mio possesso per maggior tutela avrebbero portato proiettili depotenziati, qualora il colpo per me fosse partito proprio da una delle mie pistole.
Comperai da un collega ex consubim che aveva un piccolo commercio di roba militare a buon mercato, un giubbetto antiproiettile di quelli fini e aderenti affinché potessi indossarlo sotto la camicia, questa era un’altra piccola assicurazione che mi ero concesso, quando mi avrebbero sparato lo avrebbero fatto con professionalità alle gambe o alle braccia, se il giubbetto fosse stato visibile si sarebbero sentiti sereni d’esplodere il colpo in fretta e questa serenità non gliela volevo concedere, dovevano restare concentrati.
Alle 13,21 del martedì successivo arrivarono come previsto, proprio mentre il blindato andava via dopo aver consegnato diversi plichi pieni di soldi, la fila in cassa aveva impedito al cassiere di farli scivolare nella pancia del caveau, loro lo sapevano, io ero pronto.
13,42 notai un istante di cambio di tensione perché le luci lampeggiarono un attimo , il blocco delle porte in caso di masse metalliche non funzionò, i rapinatori entrarono insieme, due da una porta e uno dall’altra. Il loro primo pensiero fui io, alzai le mani e mi feci disarmare quasi spontaneamente, ma nessuno diede peso a quel gesto. Li lasciai agire, non ero più la guardia giurata, ero consapevole in qualche modo di esserne il complice, prendano ciò che vogliono, l’importante è che mi sparino.
13,51 hanno riempito le loro borse, era andato tutto liscio, fin troppo pensai, vuoi vedere che il cassiere è un complice o un basista?
Li avevo davanti a me, camminavano in fila indiana a passo sostenuto esibendo un’ eccessiva sicurezza. Estrassi dalla fondina della caviglia la mia piccola 38 mirai ai piedi, ma erano troppo vicini ed esitai,il primo ebbe i riflessi pronti e mi colpì con un calcio il braccio, la 38 mi cadde di mano, il tonfo metallico sul marmo, il secondo rapinatore la raccolse, per un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Maledizione. L’ultimo sbloccò le porte, schiacciò il tasto con il disegno della carrozzella, il catenaccio dell’ uscita per disabili obbedì all’ordine, la porta si aprì di slancio. Maledizione, non può finire così.
Mi alzai con tutto il braccio dolorante quasi a penzoloni e mi tuffai dietro di loro, nello slancio inciampai, mi trovai con la mano sinistra che cingeva la caviglia dell’ultimo rapinatore, urlai “sparami!” il tizio prese la mira e con la mia pistola, mi sparò in testa.

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Pasticcio di carne – storia di cuochi e politica

 Pasticcio di carne

Ho sempre una certa tensione quando incrocio lo sguardo di un poliziotto… e quello mi guardava eccome. L’incrocio dello sguardo con l’autorità è qualcosa di ancestrale, un timore innato? No, non credo, anzi, penso che nasca sui banchi di scuola, ho studiato lo sguardo dei professori che oscilla come un pendolo sugli studenti silenziosi e notai subito, fin dalle elementari che mostrarsi distratti e indifferenti, incarnando una sorta di superiorità emotiva, dissuadeva maestre e professori dall’interrogarmi, almeno per quella volta.

Comunque il giovane poliziotto mi guardava, mentre armeggiavo con la borsa del motorino, lo zaino, il casco, la catena col lucchetto. In questo caso però la tensione era dotata di un minimo di concretezza, il portacoltelli da cuoco è naturalmente pieno di coltelli, nel mio c’era soprattutto un inquietante bufalo francese da sessanta centimetri, il classico coltello da macellaio per intendersi e la leggenda dice che le carceri sono piene di cuochi che portano i loro coltelli a spasso.

I nostri sguardi come si erano annodati si sciolsero per seguire ciascuno la sua direzione. I miei erano tutti orientati a questo nuovo contatto che mi portava dalle cucine che da buon cuoco, zingaro e mercenario mi avevano piu’ o meno decorosamente ospitato fino ad ora, alle case dei politici, alle loro cenette “mi hanno presentato un nuovo cuoco…”. Camminavo e pensavo ai gusti, ai sapori, alle idee e ai colori necessari per stupirli. Dovevo conquistare quella gente, Dovevo lasciarmi alle spalle quegli ingaggi da dieci euro l’ora e finalmente sentire a fine serata quel gioioso ingombro in tasca. Guadagnare in una sola serata quanto sei abituato a ricevere per un intero mese di passione … non ha prezzo.

Cucine, questo conoscevo, piani e sportelli d’acciaio, cappe, fuochi, ghise, fry top, accessoriate o essenziali, colme di gente che corre ovunque, oppure deserte, dove ogni suono è un eco. Un mondo dalle variabili incalcolabili.

Sempre più spesso, nell’ultimo periodo, mi capitavano due tipologie di ristoratori , il professionista che pieno di soldi e di orgoglio aveva deciso che fin da bambino la sua passione era avere un localino da quaranta coperti in centro e finalmente aveva avuto il coraggio di realizzare il suo sogno. E la triste categoria dei ristoranti della malavita, che servivano solo per riciclare danaro. Entrambe queste categorie erano a mio favore, poco lavoro in sala, poco lavoro in cucina, breve la durata dei contratti e orari impossibili. Questo si trova e questo io faccio, cercando di evitare quelli ottimi e stracolmi, quelli storici che non conoscono crisi. Insomma meno stelle e recensioni possibili. Soldi in mano e nessun contratto.

Del resto sono o non sono uno zingaro mercenario?

Basta adesso con questi pensieri, sanno di fritto rancido, di carne da lavare due volte perché puzza e di cozze affogate nel loro piscio. Concentrato, sono il vecchio gondoliere vichingo. Devo stupirli.

Il palazzo era incastrato tra i vicoli che circondano piazza Montecitorio, proprio dietro il parlamento, dopo una buona mezz’ora di sala d’attesa in un salottino elegantissimo comparve il mio uomo Rozzi. Viceministro del governo passato e in aria di candidatura nel prossimo vista l’imminente attesa sfiducia del parlamento.

Era molto diverso da quello che avevo visto in televisione, mi parve sudaticcio, a suo agio nel risultare burbero e sgradevole. In meno di un minuto di conversazione mi chiese solo come mi chiamavo, lo seguivo lungo quei corridoi, mi precedeva a passo veloce parlando di questo pesce che sarebbe arrivato da Napoli, che sarebbero stati una decina di ospiti, mi affidò ad un tipo vestito di scuro che non vedeva l’ora di liberarsi di me, Mi fece entrare in cucina a sua volta affidandomi alla cuoca, mi disse di presentarmi il sabato successivo e mi infilò una banconota da cinquecento euro in tasca.

La cuoca di sguardi come il mio doveva averne visti diversi, mi offrì una birra gelata e mi lasciò osservare quella cucina.

Cinquecento euro, non riuscivo a pensare ad altro, cinquecento euro nella mia tasca sinistra, la signora era disincantata e noiosamente descriveva quella cucina, ma il mio cervello rimaneva attaccato a quella singola banconota. Lei parlava ma il mio cervello non riusciva a processare altro che un pensiero, cinquecento euro di anticipo.

Dove sono? Chi sono?

Mi svegliai in un ambiente ovattato, il profumo di un ciambellone mi fece riprendere, lo sguardo della signora Paola sollecitava almeno una parola, una battuta di spirito delle mie, una domanda…ecco una bella domanda da professionista. Fu così che chiesi dove fosse la cappa. La Signora Paola scosse la testa sconsolata- Fabrizio, le ho già spiegato, il soffitto, vede il soffitto? Questa è la cappa, tutti i fumi sono trattati ed espulsi, fa tutto da sé, se frigge lei succhia di più- lo sente il sibilo? E questo è il controler, da qui controlla tutti i forni e i fuochi-

Si che poi fuochi non sono, vede su questi piani lei può mettere la mano ma non si brucia, ma se mette una padella…vede che frigge? – Signor Fabrizio? Mi sente?

“L’UTENTE DA LEI CHIAMATO NON E’AL MOMENTO RAGGIUNGIBILE, DIGITARE 5 PER ESSERE RICHIAMATO O 1 PER RICEVERE UN SMS PER ESSERE AVVISAT…”

Momun , il bengalese che mi aveva passato il prezioso contatto non poteva ricevere il mio grazie.

Sprofondai nel divano, osservando il soffitto che scrostato rivelava gli strati delle varie tinteggiature, potevo distinguere quelle date con sapienza e professionalità da quelle che sulla scia di un entusiasmo ormai passato detti con il rullo io stesso, con la pretesa che il tutto avvenisse con una sola mano e in pochissimo tempo. La mia vita stava cambiando o forse era già cambiata e mi assopii.

10,00 16,00 e 19,00 24,30 questi sono i miei orari, sei giorni su sette per 1.200,00 euro. La crisi di governo era nell’aria, a pranzo il menù fu risicatissimo, ci si preparava per un cenone elettorale … funziona così: Il politico contatta un ristoratore sfigato come il mio (dicono ottimo dentista impiantista), contratta un prezzo forfettario compreso di bar e bevande per una cinquantina di persone che lo stesso ristoratore si occupa di reperire, tra l’aperitivo e la cena il politico fa il primo discorso, si presenta, narra di prodezze passate e augura a tutti buona cena. Quando i dolci sono sui piatti fa il secondo discorso che verte sul programma del suo partito, invito a votarlo, commiato e distribuzione di biglietti da visita con lo stemma di partito, il suo nome e una croce rossa sopra la preferenza.

Dal mio punto di vista, gli ospiti fecero avanti e indietro col bagno, questo voleva dire cocaina, pippava il proprietario del ristorante, pippavano i suoi amici, infatti andò molto bene l’aperitivo, particolarmente apprezzata fu la tartina con musse di broccolo con brounnaise di ricciola in sevice. Come potevano non apprezzarla, ma a quel punto e dopo il primo discorso i recinti della cocaina si aprirono, quindi non mi stupii se quasi tutto il resto finì al lavapiatti Mahamud, che  raccolse gli avanzi e mi ringraziò sei volte per tutto quel ben di Dio , mi dispiacque particolarmente per il risotto porcini e cozze con zafferano e menta.

Ore 2,00“L’UTENTE DA LEI CHIAMATO NON E’AL MOMENTO RAGGIUNGIBILE, DIGITARE 5 PER ESSERE RICHIAMATO O 1 PER RICEVERE UN SMS PER ESSERE AVVISAT…”

Che fine avrà fatto Momun?

Il mio aiuto cuoco rasta è felice di me, mentre io non sono molto orgoglioso di lui, nonostante abbia poco più di vent’anni è lento e impreciso, direi pessimo ancora col sac à poche ma oggi ha imparato molte cose e per sdebitarsi mi ha regalato due, dico due untissime canne d’erba meravigliosa, me ne fa dono davanti alla porta del ristorante, la città è ormai deserta, mi sento un privilegiato a vederla così, ne attraverso le budella insieme agli spazzini e a qualche puttana di colore. I muscoli cominciano a raffreddarsi, sale il dolore alle gambe, scende l’attenzione, amo questa città, cazzo! Amo il mio mestiere.

Sabato mattina, mi do malato, chiamo er lenticchia e gli offro la sostituzione. Preciso che non mi riferisco ar lenticchia quello chiamato così perché un capodanno, ubriachissimo, rovesciò il pentolone di lenticchie per terra e raccolse tutto con scopa e raccogli mondezza e servì il tutto senza battere ciglio tra gli  applausi della sala, ma der lenticchia quello che si chiama così non per il legume, ma prende il suo soprannome dal suo viso… no non ha le lentiggini, ma il volto butterato per l’esplosione di un forno su una nave da crociera canadese sulla rotta di Acapulco, diciamo er lenticchia due. Chiamai l’aiuto cuoco rasta e gli dissi che tutto era in mano a lui, mi raccomando ecc.

Sono lo zingaro mercenario chiamato gondoliere vichingo, quantomeno sono  un onestissimo chef de comis, ma tutti questi impicci non li avevo mai visti. La signora Paola…missing, ero solo come un cane, ero uno straniero in quella cucina tirata a lucido, che profumava di profumo, con questa tastiera touch screen, che controlla tutto, sul davanzale delle finestre a quadrotto, ogni odore e spezia erano pronti all’uso, pacchi di fogli di silicone al posto della carta forno, ma quando l’uomo in nero comparve fu il delirio.

C’erano due spigole di mare esageratamente belle e fresche, diverse aragoste vispissime, ostriche enormi e dolcissime, una ricciola da almeno dieci chili che avrei affettato cruda e servita su rughetta con varie salse tra cui una odiosa salsa filippina che tutti amavano, ma soprattutto sedici caracol vivi.

Passi tutto, ma io il caracol non l’ho mai visto, non sapevo neanche che esistesse, si tratta di una creatura bellissima di origine caraibica, una conchiglia da circa due chili, grande circa cinquanta centimetri di lunghezza e altrettanti di diametro, vedevo il suo piede nero muoversi nell’acqua dei grandi lavelli, dalle sue dimensioni potevo immaginare che il muscolo al suo interno potesse pesare anche due, trecento grammi.

Il tipo in nero mi chiese cosa mi servisse. Sentivo la mia voce parlare, lui che prendeva appunti ma la mia anima osservava il tutto dall’esterno, il mio corpo fluttuava come una nuvola di vapore in una specie di trans a cui non ero abituato.

Il tipo raccolte le mie richieste chiese se c’era altro, scossi la testa e quello si avvicinò, avrei arretrato se ci fosse stato lo spazio disponibile, ma ero appoggiato al banco frigo e non ne ebbi la possibilità, quindi finsi disinvoltura e lui mi infilò una banconota da cinquecento nel taschino della mia divisa migliore, quella con la riga nera sulle maniche e sul colletto.

Ma cosa avevo io da perdere? Se tutto fosse andato in merda chi se ne frega, sono o non sono lo zingaro mercenario? Sono o non sono il gondoliere vichingo? Ho almeno otto ore a disposizione , a vapore i caracol dovrebbero aprirsi, il forno a vapore sapeva il fatto suo e le cose girarono presto per il meglio.

Fu un successo, non credevo né ai miei occhi né alle mie orecchie; i commensali vollero conoscermi, il viceministro era orgoglioso, batteva le mani, nascosi sapientemente il mio stupore quando mi resi conto di chi avessi davanti: quelli di destra e quelli di sinistra, quelli di sopra e quelli di sotto, le maestranze della politica trasversalmente espresse in quella tavolata, tolsi la toc e feci l’inchino, uscii camminando all’indietro e un po’ mi vergognai anche nel farlo, ma lo feci.

Comparvero due originari di Colombo, Sri Lanka, che mi tolsero spugne e detergenti dalle mani, uomo in nero non ti temo, questa volta si avvicinò e mi mise due banconote da cinquecento nel taschino della divisa, quella buona con le righe nere.

Duemila euro, vorrei accendere un cero, ringraziare un santo…

Ore 23,00“L’UTENTE DA LEI CHIAMATO NON E’AL MOMENTO RAGGIUNGIBILE, DIGITARE 5 PER ESSERE RICHIAMATO O 1 PER RICEVERE UN SMS PER ESSERE AVVISAT…”

Che fine avrà fatto Momun?

Duemila euro per otto ore di lavoro, normalmente a stento ne prendo settantacinque, con una mano al culo novanta . Ecco ho capito questa è la mia vita.

La città era ancora viva, traffico, gente, non ero abituato a quegli orari, amai meno la mia città, ma avevo in tasca, nella mia tasca sinistra quel bottino, ricco e felice, questo sono.

A questo punto scatta l’attesa, se sono piaciuto mi richiameranno, si ma quando? Se mi chiamano tra quindici giorni è un conto se lo fanno tra due mesi un altro. Pagai il mese di affitto in anticipo e comprai una BMW R 1100 R dal lattaio, che si prese il mio vecchio motorino in cambio del bauletto originale, casco e giacca.

La mia vita era davvero cambiata ma non nel senso che pensavo io, vivevo nell’attesa che qualcosa accadesse, che l’uomo in nero si palesasse o che mi squillasse il cellulare. Così il tempo passava, col mio aiuto rasta e il lavapiatti bengalese, il mio soffitto scrostato e quel gioiello che solo chi possiede una moto BMW può capire. Ma il pensiero non seppe stare al suo posto a lungo, cominciò a serpeggiare nella mia mente la consapevolezza che una vita migliore era possibile che la meritavo, almeno una cena al mese.

Il cellulare squillò. – in montagna, per una battuta di caccia? Si certo sono disponibile-

Pasticcio di cervo… Povera bestia era incinta, come si fa a scannare una femmina di cervo incinta, come si fa ad averla nel mirino e fare fuoco lo stesso, e se fosse stato un colpo sparato per errore come non vergognarsene. Me ne stavo la, ad osservare questo animale e pensavo: non è un reato, nessun giudice può condannare questa gente, che con le loro Land Rover e i loro cani da caccia fa questo. Pensai che certe leggi non servono, le leggi non possono prevedere tutto, le leggi devono astenersi dall’esprimere un giudizio etico, ciascuno deve avere le sua regole morali. E’ una cosa che riguarda l’individuo non la legge. Giovanni Falcone pochi giorni prima del suo omicidio questo raccontava ad una scolaresca- l’azione non delittuosa ma immorale è oggetto di giudizio, non serve l’illegalità per condannare un comportamento.

Spellai e sezionai quell’animale, ne gettai via il feto e procedetti cucinando le varie parti e in vari modi. Fui poi riaccompagnato dall’uomo in nero su un grosso SUV scuro. Dai sedili posteriori si accedeva ad una televisione posta sui poggiatesta, una cuffia per l’audio, un programma di intrattenimento mi intrattenne e mi impedì di pensare fin quando fui a casa, li il rimorso mi inondò.

Quel piccolo di cervo gettato nella spazzatura e le risate dei commensali si mischiavano nella mia testa, mentre lo sguardo andava sui duemila euro, prezzo della serata. Per un attimo, a mia discolpa arrivai a pensare che fosse addirittura meglio ambire ai famosi dieci euro l’ora e che perfino le cozze affogate nel loro piscio fossero più decorose di quello che avevo fatto nelle ultime ore. La scena fu la stessa, al coro: cuoco cuoco- uscii, mi tolsi la toc e feci l’inchino, mi vergognai ma lo feci.

L’ex viceministro nel frattempo era diventato ministro, in quanto il parlamento davvero aveva sfiduciato il vecchio governo.

L’auto nera era bellissima, notai soprattutto le cuciture dei sedili, sembravano fatte a mano da un sapiente artigiano,  ma era evidente che l’industria cinese fosse all’avanguardia tecnologica.

Regolai l’aria condizionata a mio gusto, misi il monitor che avevo davanti su un programma di intrattenimento. Il parcheggio interno di Montecitorio non è un luogo sinistro, ma mi costrinsi a non vedere quel via vai di auto scure, con prime donne seguite da codazzi di portaborse e poliziotti in borghese.

Il ministro mi corse in contro come un vecchio amico che non vedi da tempo, sorrideva ed allargava le braccia.

Informalmente il governo al completo sarà presente a cena in questa defilata sede di partito- ti prego dammi il meglio e lui, in persona, mi mise quattro banconote da cinquecento in tasca, l’uomo vestito di nero a poca distanza ci osservava discretamente.

La cucina era degli anni settanta, ma in perfetta efficienza, dodici fuochi, un rubinetto d’acqua rotante alimentava sia i fuochi che i quattro bollitori da dieci litri. Questa isola, circondata da banconi, con l’angolo pasticceria in marmo e tutto il resto. Anche la vista era mozzafiato, L’ultimo piano  di un palazzetto in via Dandolo, tra l’istituto di cultura spagnola e Trastevere.

A questo punto sono concentrato sulle entreè, vellutata di carote alla noce moscata e zuppa di cipolla in crosta di pane. La base è la stessa: burro e farina. L’effetto Maillard è fondamentale. Vellutata di carote: 1Kg carote affettate a rondelle, 200 gr burro, brodo vegetale 2 lt, noce moscata, maggiorana, sale. Taglio preciso e velocissimo, produco un rumore ritmico e assordante, zuppa di cipolle per quindici, capisci che surriscaldo il coltello, quindi l’uomo in nero dovette urlare per catturare la mia attenzione, sorrideva mostrandomi alcune divise da cuoco sulla loro stampella. Sul lato sinistro c’era scritto Fabrizio, sul lato destro lo stemma SR,Senato della Repubblica. Amano marchiare la loro gente, amano sapere che ti hanno, che sei loro finchè loro vorranno. Gente priva di morale, di coerenza, non ispira fiducia, non hanno veri amici e loro non sono veri amici di nessuno. Mi chiedo come possa questa gente avere ricevuto credito dalla gente, attraverso quale magia sia stato possibile il consenso popolare, per non fidarti di loro basta conoscerli da vicino. No non fraintendermi, non mi hanno fatto del male anzi, ma sul modo si che c’è da dire. Pure queste divise…che centra il logo del senato? La domanda è sbagliata. Che centro io con il logo del Senato?

Passi veloci in avvicinamento… Momun! – Chef, tu grande maestro, mio big big friend- esclamò congiungendo le mani e accennando un piccolo inchino- Vieni qui amico mio- lo abbracciai, quel piccolo uomo nero e cicciottello era il mio aiuto cuoco prediletto, si sarebbe fatto strappare un occhio per me. Finiti i saluti mi tolse dalle mani una delle due divise e la indossò frettolosamente, restai impietrito- metti giacca chef, metti giacca- obbedii senza fiatare- very important today, io lavo taglio very very quikly, presto presto. Tu cucina, tu grande chef grande maestro and my best friend. – Momun scusa, yust a question. – No parla adesso tu cucina.

Vabbè Momun…Ci tenevo proprio a parlare con lui, ma non era un desiderio ricambiato evidentemente.

Il burro scivolò nei due tegami di rame.

Udimmo un grande tonfo provenire dal lato opposto al corridoio, dove c’era una porticina che neanche avevo notato. Un altro tonfo, questo più ovattato del precedente, seguito da un rumore sordo di qualcosa di pesante e metallico. Momun si immobilizzò, passando davanti ai tegami li feci scivolare indietro dove le fiamme erano spente e mi avviai velocemente verso la piccola porta.

Rozzi era in piedi con le mani sulle guance paonazze, in terra un corpo e un grande coltello francese da sessanta centimetri, marca bufalo…il mio. Feci per avvicinarmi, per soccorrere l’uomo in terra, mi trattenne Momun e aveva ragione. La testa di quell’uomo sembrava di cartapesta, la parte occipitale completamente rientrata lungo un profondo taglio rettilineo, dal lato a terra la chiazza di sangue si espandeva velocemente. Scivolava silenziosa tra le fughe delle enormi piastrelle di cotto antico ridisegnandone il contorno, per finire, tracimando, a coprirne la superficie completamente.

Posi il dito medio tra la carotide e lo sterno cleido mastoideo del poveretto, cercando il pulsare della aorta giugulare. Assenza di battito. Momun era andato in cucina ed era lì, in piedi, con un cucchiaio di cristallo, si accovacciò e accostò la posata al naso cercando, sperando che si appannasse, poi scosse la testa. Credo di averla scossa anche io, c’era un uomo morto li per terra, avrà avuto sessant’anni, Il luogo del delitto era una stanza posta tra la cucina e la zona privata della residenza, quindi diremmo si tratti di un ufficio privato o piccola sala da pranzo per privati ed esclusivi visitatori. Una stoffa di velluto alle pareti con strisce verticali color carta da zucchero e verde bottiglia; Dall’altezza di un uomo in su, era verniciato di verde, una scrivania antica ma dall’aria precaria, una poltrona di legno in terra, deve essere stata lei, la poltrona a cadere per prima, poi l’uomo, poi il coltello da macellaio.

Momun mi guarda, che fare chef?

-A me lo chiedi? –E che centro io con questi due , uno è morto, cazzi suoi, cazzi del ministro, io chiamo la polizia. Rozzi piangeva e si sfregava faccia e capelli con le palma delle mani aperte.

Cazzo il mio cellulare era scarico

-Andiamo Momun, prestami il cellulare, il mio ha la batteria a terra. Dai Momunn.

– No, Non chiama col mio telefono

-Ministro, mi presti il suo cellulare, chiamo la polizia e la facciamo finita.

Quello smise di sfregarsi con le mani, il capo stempiato alla calvizie era circondato da boccoli bianchi, che, sudati e spettinati, scivolavano sul bavero della giacca di velluto blu.

Alzò il capo, lentamente, così che il suo sguardo incrociasse il mio un po’ per volta, non era un tempo sufficiente per rimettere le idee in ordine, ma utile per aver chiara una cosa: costui è un assassino.

Aveva gli occhi cerchiati di rosso, che mi guardavano come il naufrago osserva la terra.  Ma era lucido, lucido e codardo, gli fu facile convincerci a far sparire il cadavere contro un milione di euro a testa. Le due valigette in pelle nera rimasero al nostro fianco per tutto il tempo, dove ogni tanto potevamo guardarle  e verificarne la rassicurante presenza.

Il morto era il ministro dell’ economia tedesca, ma non dovevamo preoccuparci, perché non doveva essere li, del resto chi sapeva che io e Momun fossimo la.

A volte le situazioni estreme sollecitano delle soluzioni…romantiche e a me ne venne una.

Il cadavere era già stato diviso in cinque parti, col mio stesso coltello, che facilmente insinuandosi nelle articolazioni di anche e spalle, le separò dal busto quasi senza sforzo. Fu li e osservando quegli arti sul bancone che mi venne l’idea.

Separai i muscoli dalle ossa, mentre una grande quantità di cipolla tagliata a lamelle stufava in un tegame di rame enorme, con paprika e maggiorana, aggiunsi i bocconcini di carne e li lasciai cuocere a fiamma poco intensa per circa tre ore.

Potevo osservarli da un oblò che separava il corridoio di collegamento tra la cucina e la grande sala da pranzo, li riconoscevo, perché li avevo visti in televisione nei talk show.  Il primo ad essere servito fu il capo della polizia, tutti sapevano che persona fosse, la mano armata dello stato, quello stato inflessibile, picchiatore spietato che seda le manifestazioni in piazza. Quello stato che picchia al G8, che picchia i terremotati dell’Aquila, i pensionati, gli sfrattati, i disabili e i martiri delle cartelle esattoriali. Un uomo così, disonora i non pochi poliziotti onesti e li riduce tutti in servi violenti, impedendo a noi di poter tracciare una linea tra buoni e cattivi poliziotti, divenuti per me tutti bastardi, tutti uguali.

Mangiava avidamente la ex sindacalista oggi ministra del lavoro, il governo aveva bisogno di superare il dissenso delle parti sociali. Evitare di avere i lavoratori compatti tutti da una parte, quella avversa all’agognata crescita infinita del PIL.

Ecco il ministro della giustizia, difensore della privacy di tutta la classe politica, il principio che lo guida è che le azioni, tutte le azioni dei nostri politici siano tutelate e protette, per evitare che un nemico politico ne possa fermare l’azione di governo. Al suo fianco il ministro dell’interno, una mission: coprire con il segreto di stato ogni tragedia che vedeva coinvolti i servizi segreti o quasi segreti, perché il bene comune è più in alto della verità.

Il ministro del tesoro, chiese tre volte quel pasticcio fatto di carne e politica e che io passai per goulash di vitella.  Era lui che ripartiva incarichi presso le aziende di stato, ai politici bruciati, donando loro una specie di seconda vita, creando un legame indissolubile, in un circo di scambi e di favori.

Avrei continuato ad osservarli mentre si nutrivano di uno di loro, godendo del sapore intenso, della fragile consistenza del prodotto ma ignorandone la natura, ma io sapevo che stavano mangiando loro stessi.

Momun aveva mollato pezze e detersivi ai ragazzi che si sarebbero occupati delle pulizie, il tavolo dei dolci era gonfio di prodotti, di noi non c’era più bisogno.

Percorrevamo i corridoi che ci conducevano all’uscita, con le nostre borse e quelle valigette di pelle, mentre sentivo gli ospiti intonare il coro:”cuoco, cuoco, cuoco”.

 

Li ignorai e pensai che da quel giorno, per fortuna, anche loro avrebbero ignorato me, per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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