Io porto una Beretta 7.65 parabellum. Un’arma da femmina?
La leggenda metropolitana narra di un tipo che vuole ammazzare la moglie, ha una 7.65, è notte, lei dorme, lui si avvicina con mano tremante arma l’otturatore e mette il colpo in canna, la donna è nuda nel letto arrotolata tra le lenzuola, con la sinistra scopre il capo, vede nella penombra i suoi riccioli biondi che si espandono sul cuscino. La mano continua a tremare, ma è deciso, deve punirla, tutto è finito, la deve pagare per il male che gli ha fatto. Spara. Un colpo, un solo colpo in fronte, sussulta il corpo, il tonfo assordante fa tremare i vetri della finestra, poi è il silenzio, i capelli e il cuscino si tingono di scuro, è buio e il sangue sembra inchiostro. Il bossolo espulso dalla piccola automatica rimbalza sul letto, l’odore di polvere da sparo invade il suo olfatto.
La disperazione lo avvolge, la decisione lo consola. Infila la canna in bocca, infondo, più infondo, quasi in gola e … spara e muore. La donna viene ricoverata con solo dieci giorni di prognosi e dimessa in venti per trauma cranico, quel povero fesso non aveva ucciso la moglie, le aveva solo scheggiano i lobi frontali, il proiettile era finito nel comodino al suo fianco. Colpa della pistola dal calibro troppo piccolo? Bufale secondo me se è vera questa storia, al tipo tremava la mano e l’ha semplicemente presa di striscio.
Altri sostengono che la 7.65 non abbia potere d’arresto, come dire che se spari a uno che corre, quello manco se ne accorge e continua a correre. Io non sono d’accordo, non sarà certo una 3.57, che ti solleva quando ti colpisce, ma resta pur sempre un’arma, il mio consiglio, sarà banale ma è di non farsi mai sparare addosso, neanche se è solo una 7.65.
A me, non me non me ne importa niente di queste cose, semplicemente la 7.65 è leggera e pure i colpi lo sono , chi se la deve tenere in tasca tutto il tempo sono io. Chi porta l’arma tutto il giorno sa bene quanto pesa, chiedilo a un poliziotto o a un carabiniere, calibro 9 bifilare, da sola pesa un kilo e porta sedici colpi, fa venire la scoliosi e io oggi ho cinquant’anni e se me lo posso risparmiare ne sono felice. Che mi frega del potere d’arresto, che la gente la consideri un’arma da femmina, costa poco e soprattutto io mica la devo usare per forza.
L’arma induce rispetto per sua natura. La gente sa che la porto, sa che sono in vantaggio, sa per certo che non è un giocattolo, sa che non è caricata a salve e sa che posso e so usarla, ma soprattutto sospetta che la userei e io so, che non si sbaglia.
Molti anni prima, avevo conosciuto un cassiere di banca,Gepi, così lo chiamavano tutti, non so se fosse il suo vero nome o cognome oppure uno di quei nomignoli che si dicono una volta e restano attaccati tutta la vita. Era un uomo alto e canuto, con un leggero labbro leporino, l’aria saggia di uno che riflette prima di rispondere a una domanda, gentile ma autorevole, le sue parole sospese nel tempo parevano scritte per sempre, lo stimavo molto e questo sentimento doveva essere ricambiato perché a pochi giorni dal suo pensionamento mi fece dono di una confidenza che cambiò per sempre la mia vita.
“Mani in alto questa è una rapina” urlò l’uomo incappucciato da una calza mentre saltava sul bancone e scavalcava il vetro che limitava la clientela, un’ altro entrava nella stanza del direttore, un’ altro ancora scavalcava il bancone alla sua destra mentre per esser preso sul serio sparava un colpo di lupara sul soffitto.
Il Gepi lo riconobbe subito, , calibro 12 pensò, piombo 9. Il calbro dal suono, il piombo dai segni del colpo sul soffitto. Il Gepi era un appassionato di caccia da piuma.
Quando a una vecchia doppietta da caccia seghi parte della canna e parte del calcio, il nobile fucile da caccia a canne giustapposte si trasforma in un maneggevole incubo da rapina, estremamente impreciso forse, ma temibile perché spara pallini piccoli in ogni direzione facendo scempio d’ogni ostacolo, in quel caso, mi raccontava Gepi, il colpo decimò le lampade al neon sul soffitto. Riconobbe il piombo 9 da pernice perché le tracce sul soffitto erano minuscole ed era la sua grammatura preferita per la caccia d’aspetto, quando da capanni nascosti nei canneti attendeva stormi delle prelibatissime prede stremate dalla lunga migrazione entravano nel suo mirino, lui questo lo chiamavano caccia, io pernicicidio, odio la caccia e i cacciatori.
Le sue mani riempirono sacchi neri della spazzatura di banconote d’ogni taglio, riempiva e consegnava, i rapinatori a loro volta riempirono le loro borse da tennis ed andarono via.
Il Gepi prese un foglio di carta ci scrisse sopra – chiuso per rapina- e camminando tra cocci e calcinacci si diresse verso l’uscita, quando fu davanti alla centralina di controllo delle porte, girò le chiavi e chiuse tutto, poi attaccò il foglio sulla porta.
Si susseguirono le telefonate dalla direzione “state tutti bene?””quanto hanno preso?”.
Poi fu il turno delle telefonate a mogli e figli, prima che radio e telegiornale parlassero della rapina, “il bancario è un lavoro pericoloso di questi tempi”.
Poi fu il turno della polizia, le foto, le impronte sui vetri e sul bancone, atti formali, “i rapinatori avevano i guanti?”
A nulla servì il racconto suo e dei suoi colleghi, l’inutile rituale ebbe luogo e durò tutto il pomeriggio, Gepi sosteneva che non furono mai beccati.
Poi d’ultimo l’arrivo dei funzionari dalla sede centrale con un medico, per fortuna che c’era, perché i dirigenti erano così imbarazzati, goffi, finti che fu un sollievo farsi misurare la pressione da uno che ti guardava negli occhi da persona a persona. Qualcuno girava chiedendo:”chi vuole essere accompagnato al pronto soccorso?”.
“Scusi direttore”fece Gepi consegnando il registro di cassa “Questi qua, gli ultimi”indicando i poliziotti in borghese ”si, questi della scientifica dicono che hanno finito…” l’altro”ha visto Gepi, quasi un miliardo…” “9.867.613, è meno d’un miliardo, io la vedo così, se nessuno sé fatto male allora va bene così”annuendo”si hanno finito, puoi chiudere il caveau, grazie, grazie di tutto, siamo stati bravi e coraggiosi, ma lei Gepi, ha sostenuto tutti noi con la sua calma, il vero sangue freddo, grazie Gepi, sei stato un esempio, grazie davvero, ne parlerò in direzione, contaci”.
Gepi fece scivolare sui loro perni i sei grandi portoni delle cassette di sicurezza, le serrature scrocchiavano, chiavi lunghe oltre un palmo divisibili in segmenti assemblabili venivano smontate una ad una e riposte in tre custodie di pelle con dentro anche il foglietto plastificato delle combinazioni, una era per il direttore, una per il vice, e una era la sua.
Tornò al suo posto di lavoro per mettersi la giacca, nessuno si curava di lui, Gepi, infilò le mani nel cestino della spazzatura e raccolse indisturbato sedici mazzette da centomila lire, le infilò lentamente nelle tasche della giacca e dei pantaloni,salutò di nuovo i pochi colleghi rimasti, consegnò due dei tre involucri con chiavi e combinazioni al direttore, con un cenno distratto verso i poliziotti si congedò e uscì, salì sulla sua ritmo gialla uovo e tornò a casa.
Da quel giorno, da quel racconto, la mia vita non fu più la stessa, il tarlo era in me. Per ore giorni e anni pensai a quel sangue freddo, Gepi durante la rapina aveva fatto sparire centosessanta milioni di lire senza battere ciglio, chi mai sene sarebbe accorto, anzi lui era un eroe, uno che aveva subito una rapina e per questo sarebbe stato addirittura preso ad esempio dalle future generazioni di cassieri.
Per quanto riguarda il mio contesto familiare lo definirei irrilevante, non esistono motivazioni strappalacrime, nessun figlio malato di Sla o mogli con l’Alzheimer, né debiti per gioco d’azzardo e così via. Se una motivazione è la mediocrità, bene allora è questa la motivazione.
Il tarlo se vogliamo chiamarlo così nasce dall’occasione. Nasce dall’idea di avere un grande potere: la coscienza di avere la capacità di trasformare una situazione sfavorevole in una di estremo vantaggio.
Qualcuno aggiungerebbe anche che gente come me, a cinquant’anni, con un’immutabile futuro davanti ha ben poco da perdere, ma io non sono d’accordo.
Un fattore rilevante per l’espansione del tarlo fu la qualità del tempo che avevo a disposizione per maturarlo. Ore e ore, giorni mesi, anni, di osservazione e attesa che la condizione necessaria si manifestasse, scivolarono come l’acqua sull’argilla, in solitudine e nel quasi totale silenzio. Si, certamente i miei complici furono tempo, silenzio e solitudine, ma soprattutto il silenzio.
Quando il tarlo allentava la sua presa sui miei pensieri o meglio sulla mia capacità d’osservazione, immaginavo storie di carcerati che sviluppavano la loro strategia di fuga con pazienza e determinazione. Così il cambio turno, una disattenzione delle guardie diventava la loro occasione di fuga, in fondo la mia situazione non era così diversa dalla loro.
Del resto anche sull’azione del Gepi, non mancavano alcuni interrogativi irrisolti: era una sua abitudine gettare alcune mazzette nel cestino? Si era accorto del sopralluogo? Era un basista? Ero giunto alla conclusione che io potevo sviluppare un mia strategia totalmente autonoma, e grazie al tempo e al silenzio nel mio caso tutto partiva dalla vigilanza, fa ridere dirlo, del resto questo sono, uno che vigila.
Nessuno poteva leggere il tarlo nei miei pensieri, anzi, l’immagine affidabile era un baluardo che tenevo altissimo, è per questo che le mie vere intenzioni erano per così dire, mimetizzate.
Se un rapinatore viene arrestato si becca diversi reati, rapina a mano armata, associazione a delinquere ecc. non gli serve affatto l’omicidio. Mi spiego meglio, che una rapina vada bene o male se fatta con criterio è un po’ come la guerra fredda, tante testate nucleari ho io tante ne hai tu, esiste l’intimidazione, ma la responsabilità di una guerra nucleare vera nessuno è disposto ad assumersela. Per questo un criminale con un minimo di professionalità non ammazza e basta.
Questo è un fattore cruciale, la mia assicurazione sulla vita, a questo punto mi serve una rapina.
Ma una rapina in banca è fatta di sopralluoghi e di osservazioni, le banche non si svaligiano senza capire per esempio a che ora e in che giorno ci sia il massimo del contante e soprattutto si evita sempre il conflitto a fuoco con coloro che portano o ritirano il contante, uno scontro esterno è sempre da evitare, meglio farla dentro la banca, salvo che non si voglia avere a che fare col furgone blindato, in quel caso serve tanta gente e un luogo isolato.
No quello che mi aspetto è una rapina qui, qua dentro e prima ancora il sopralluogo.
Da quando Gepi mi fece quel racconto passarono quindici anni, passarono lentissimi, erano fatti di minuti e ore tutte uguali. Per tutto quel tempo non pensai ad altro, al Gepi e a quei centosessantamilioni di lire rubati ai ladri. Attesi per quel tempo infinito che l’agenzia di banca presso la quale lavoravo come guardia giurata diventasse una banca da svaligiare, attesi il sopralluogo, osservando e annotando tutto quello che vedevo da dietro il vetro blindato.
Attesi per anni un segnale significante e un giorno arrivò. Notai dapprima le loro auto, chissà perché i rapinatori prediligono le stesse auto che usa la polizia, Alfa Romeo.
Un uomo anziano con occhiali spessi da vista e cappello preceduto da un giovane , fecero la file per cambiare dollari in lire, il vecchio dietro, il giovane davanti, entrarono e uscirono in formazione come le anatre in volo; erano le tredici di martedì.
Lo annotai, così come segnai la targa di quell’auto in seconda file AB 16…. Un’altro uomo al suo interno e una quarta persona col cane al guinzaglio che passava proprio in quel momento,
Annotai tutto sul mio taccuino, ci siamo pensai, da dentro alla mia scatola di vetro.
L’uomo col cane al guinzaglio passava e ripassava tutti i giorni tra le 13,45 e le 14,10, lo seguivo dalla telecamera posta all’esterno,alle 14,10 in punto spariva dietro l’angolo,
La settimana successiva li aspettavo, ma era un altro sopralluogo, cambiarono questa volta altri dollari, poco prima dell’ora di pranzo.
La mia strategia è semplice, non sporca la mia coscienza, richiede solo sangue freddo e organizzazione.
Se mi feriscono durante la rapina avrò a seconda del danno non meno di trecentomila euro, per danni permanenti anche cinquecentomila euro. Si vedeva che erano professionisti, questo era un punto a favore e a sfavore. Cercheranno di non sparare e quindi dovrò essere io a indurli a farlo, il vantaggio è che quando lo faranno, perché io li costringerò a farlo, spareranno per ferire non per uccidere. Di questo sono certo.
I miei cinquant’anni sono già un danno permanente, anche questa totale impossibilità di cambiare il mio futuro, questa è l’unica possibilità per godermi qualche agio.
Sono professionisti e cercheranno di non sparare, quindi mi serve un severo atto intimidatorio, alla caviglia avrei messo uno snubnose, le traduzione suona “naso schiacciato”, un revolver con la canna corta.
Ad Alfredone la chiesi così, “ naso schiacciato per rompere le noci”, sorrise facendo un cenno di consenso, lo seguii. Abbandonammo la parte di bancone delle armi nuove e luccicanti, scivolammo verso la zona dell’usato sicuro. Alcune non erano male, ma quando gli dissi che potevo spendere massimo trecento euro per arma munizioni e fondina da caviglia mi spiegò che non c’era molto da scegliere, spianò con cura una pezza di velluto nero sul bancone di vetro, prese qualcosa che non era esposta ne aveva una custodia, Colt cobra 38 special, l’arma di kojak, pensai.
Alferdone esitò un attimo, l’arma presentava evidenti punti ossidati sull’acciaio bruno, una guancia del calcio era scheggiata, insomma, non si presentava tanto bene, “arma da vendetta” disse, “arma da primo aprile”.
Erano le 9,40 del primo aprile 1971, Monika Ertl, militante col nome di battaglia “Imilla” dell’Esercito di Liberazione Nazionale boliviano, viene ricevuta presso l’ambasciata tedesca di Amburgo dal console boliviano Roberto Quintanilla Pereira, era il suo ultimo giorno da console, nel cassetto aveva un biglietto aereo di sola andata per la Bolivia, finalmente tornava a casa. Monica estrae una colt cobra 38 special e spara tre colpi a bruciapelo, tutti andati a segno, l’uomo cade sul divano e rimbalza a terra morto. Accorre Anna la moglie del console con la quale Monika ha una breve colluttazione, ma riesce a fuggire, abbandonando una parrucca, la borsa, un foglio con la scritta”Victoria o muerte. Eln” e quella pistola che Giangiacomo Feltrinelli aveva comprato in un armeria di Milano tre anni prima.
Un arma da vendetta, Roberto Quintailla Pereira ex colonnello dei reparti speciali boliviani era noto come il boia del Che Guavara. E’ lui nella foto a fianco del Che morto, è lui che diede l’ordine di far fuoco su quell’ultimo drappello di patrioti, è lui che gli amputò le mani dopo averlo fatto fucilare il 9 ottobre del ’67.
Mise sul bancone una scatola di munizioni e una fondina da caviglia usata”trecento euro”.
Consegnai il porto d’armi, mentre Alfredone compilava i moduli gli chiesi che fine avesse fatto Monika, lui senza alzare lo sguardo scosse la testa ”gli eroi non muoiono mai”.
A fine rapina estrarrò la seconda pistola proprio con l’intento di indurli a sparare nonostante mi avessero reso inoffensivo disarmandomi della mia visibile 7.65. Entrambe le armi in mio possesso per maggior tutela avrebbero portato proiettili depotenziati, qualora il colpo per me fosse partito proprio da una delle mie pistole.
Comperai da un collega ex consubim che aveva un piccolo commercio di roba militare a buon mercato, un giubbetto antiproiettile di quelli fini e aderenti affinché potessi indossarlo sotto la camicia, questa era un’altra piccola assicurazione che mi ero concesso, quando mi avrebbero sparato lo avrebbero fatto con professionalità alle gambe o alle braccia, se il giubbetto fosse stato visibile si sarebbero sentiti sereni d’esplodere il colpo in fretta e questa serenità non gliela volevo concedere, dovevano restare concentrati.
Alle 13,21 del martedì successivo arrivarono come previsto, proprio mentre il blindato andava via dopo aver consegnato diversi plichi pieni di soldi, la fila in cassa aveva impedito al cassiere di farli scivolare nella pancia del caveau, loro lo sapevano, io ero pronto.
13,42 notai un istante di cambio di tensione perché le luci lampeggiarono un attimo , il blocco delle porte in caso di masse metalliche non funzionò, i rapinatori entrarono insieme, due da una porta e uno dall’altra. Il loro primo pensiero fui io, alzai le mani e mi feci disarmare quasi spontaneamente, ma nessuno diede peso a quel gesto. Li lasciai agire, non ero più la guardia giurata, ero consapevole in qualche modo di esserne il complice, prendano ciò che vogliono, l’importante è che mi sparino.
13,51 hanno riempito le loro borse, era andato tutto liscio, fin troppo pensai, vuoi vedere che il cassiere è un complice o un basista?
Li avevo davanti a me, camminavano in fila indiana a passo sostenuto esibendo un’ eccessiva sicurezza. Estrassi dalla fondina della caviglia la mia piccola 38 mirai ai piedi, ma erano troppo vicini ed esitai,il primo ebbe i riflessi pronti e mi colpì con un calcio il braccio, la 38 mi cadde di mano, il tonfo metallico sul marmo, il secondo rapinatore la raccolse, per un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Maledizione. L’ultimo sbloccò le porte, schiacciò il tasto con il disegno della carrozzella, il catenaccio dell’ uscita per disabili obbedì all’ordine, la porta si aprì di slancio. Maledizione, non può finire così.
Mi alzai con tutto il braccio dolorante quasi a penzoloni e mi tuffai dietro di loro, nello slancio inciampai, mi trovai con la mano sinistra che cingeva la caviglia dell’ultimo rapinatore, urlai “sparami!” il tizio prese la mira e con la mia pistola, mi sparò in testa.
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